venerdì 31 ottobre 2008

La Scala, laboratorio Ansaldo








entriamo in questo enome fabbricone per delle foto, non commissionate e non richieste, ma che importa, almeno ci divertiamo un pò, e poi sono curiosa, io della Scala in sette anni milanesi non ho visto neanche l'ingresso praticamente, e il teatro in generale lo conosco più nella versione "sala attigua alla parrocchia di provincia" adattata a festoni di carnevale quartierini che come posto reale, dove c'è gente che lavora.
il direttore nell'ufficio soppalcato e pieno di pennelli ci spiega come vengono impostate le cose, come si sceglie il regista, come lui si porti dietro gli scenografi, come tutto venga passato ai progettisti in loco, pochi e divisi in tre squadre, ognuno pronto ad assemblare, incollare, cucire e immaginare uno spettacolo diverso, come negli anni l'avvento degli stranieri abbia trasformato questo mestiere, con meno lime e più monitor, come i nordici e gli americani tendano a snobbare la tradizione artigianale della scenografia per inventarsi spazi vuoti e costumi inesistenti.
tra la polvere dei falegnami c'è un gruppetto in piedi, saranno in dieci a capire con quali pieghe deve esattamente cadere un sipario di scena, altri due cuciono un enorme telo dipinto alla Necchi d'ordinanza, un ragazzo lima un cipresso di polistirolo per la Vedova Alllegra, nessuno fa caso a noi, non vediamo mastodontiche installazioni, sarà colpa delle scenografie americane..ma di epico e gigantesco da fotografare qui c'è poco;
passiamo in sartoria e le cose cambiano, subito ci fermano per chiedere gentilmente cosa facciamo, li in mezzo a loro sporche di brillantini fino ai capelli, noi comode comode senza bagaglio e con l'aria di curiosare e basta, assicuriamo che non daremo fastidio, che siamo li solo per spiare un pò, silenziosamente.
e così facciamo, girando intorno ai tavoli stracolmi di paillettes, bottoni, spille, circondati da armadi in cui riposano mercerie in ordine alfabetico, pronte ad esplodere su qualche costume seicentesco, in un angolo enormi lavatrici ed un odore strano, appretto e ferro da stiro.
nel deposito costumi ci accoglie una bella signora in tuta da metalmeccanico, è la responsabile del magazzino, passa ogni giornata fra queste teche piene di vestiti indossati da mille persone diverse, li sceglie e li cataloga, tutte le mattine si sveglia alle sei e prende il treno da modena fino a qua, da ventitrè anni, e sembra anche piuttosto soddisfatta.
mentre mi segue senza fretta ci spiega quasi tutto, ad un certo punto si ferma davanti ad un attaccapanni pieno di cappotti anni sessanta: "e questi sono i nuovi costumi voluti dalla produzione, non li abbiamo fatti noi, qualcuno va nei mercatini dell'usato e sceglie"
"scusi ma, c'è scrito che sono per il don carlos...ma cosa vogliono fare?"
"guardate non lo so, il costumista ha deciso di non coinvolgerci, ma venite a vedere queste divinità del vento che si gonfiano con i movimenti, sono bellissimi, li abbiamo costruiti in due mesi, volano per tutto il palco"
due ore dopo stiamo ancora accarezzando il raso del kimono con le papere di una sfortunata madame butterfly, quando ci accorgiamo che è ora di andare, è passato un sacco di tempo.
mi sembra strano uscire da qui, è come se dopo appena tre ore, camminando per le stanze senza fine dell'ansaldo,un fuori non ci fosse più, al suo posto i palchi e i tavoli di legno, i lunghissimi strascichi del sipaio, il tulle e le maschere e le spille, e tutte quste persone che vivono qui dentro ogni giorno come fosse niente, come non fosse un posto dal quale non vuoi uscire.

1 commento:

Anonimo ha detto...

BELLO. mi hai fatto sentire in quella caverna d Platone... dove non c'è tempo
graZie.
bacio.