martedì 29 dicembre 2009
Thissolution
Non esiste un vero archivio iconografico per i Joy Division, forse morire a ventitrè anni non è il modo migliore di perpetuare un'immagine e farla inevitabilmente scadere quarant'anni dopo in un libro memoir firmato da qualche grande fotografo dei sixties che sostenti i bagordi di vecchi rockers panciuti.
Ci rimangono una manciata di bellissime immagini originali che ritraggono la band, più molti fermi immagine presi da Control, l'esteticissimo e verosimile racconto filmico di Anton Corbijn, basato più che altro sulla complicata storia personale di Curtis; i quattro ragazzi di Salford vestiti da nine to fivers hanno da subito poco a che fare con la scena rock di quegli anni: niente festini con vergini e polverine, niente ingaggi miliardari, nessuna posa glam o accattivante e un carattere generale quasi completamente influenzato dal timido frontman epilettico e assente.
Le foto molto spesso parlano da sole, ed in questo caso, guardando il ritratto di un ventiduenne che scrive "canzoni incomprensibili", più che parlare urlano: in ogni scatto, che guardi in macchina o altrove dal palco, Ian mantiene la distanza e con un trucco di magia riesce a sembrare seduto davanti al fotografo, li nel presente continuo, con quella faccia stupita e greve e le braccia conserte, e insieme altrove, indisturbato e calmo, protetto dall'invasione del mondo reale.
I Joy Division non hanno mai avuto l'aura goliardica, folle e gioiosa dei Rolling Stones, nè la sfacciata ingenuità maleducata del punk '77: cresciuti nell'ombra dei comignoli industriali di provincia, senza pretese, con un lavoro da scrivania e il sabato al pub con la fidanzata di sempre, salgono sul palco pensando poco e suonando molto, a testa bassa, solo Ian alza lo sguardo glauco e si agita disperatamente da un pezzo all'altro riproducendo le scosse telluriche delle sue frequenti crisi epilettiche, come se la malattia avesse permeato tutte le reazioni esterne col mondo, rendendo ogni cosa ferma e mobile nello stesso tempo.
Siamo molto lontani dalla figura di rockstar viziata, capricciosa o tenebrosa per posa, quello che Ian scrive è vero come l'oro, ed è proprio questa sincerità che renderà meno digeribile il suicidio improvviso, il giorno prima di partire per il primo tour americano: in una notte la band perde il suo motore, il mondo una voce speciale e due donne il proprio compagno e la sua ombra così pesante; i Joy Division sono pronti per un funerale durante il quale seppellire canzoni che non sarano più cantate, divise da palco e memorie di un leader che non tornerà, tutto chiuso in una fossa e ben coperto, senza fretta, aspettando il battesimo dei new order, il doppelgenger senza ombra di Ian.
mercoledì 23 dicembre 2009
mercoledì 16 dicembre 2009
First chapter: about love, nature & evil things we like
Al cinema arrivo spesso in ritardo, talmente tanto che a volte lo traslo a casa. Si lo so, non si fa, i film si vedono nel buio della sala e bla bla bla, ma non ho mai avuto il culto dell'alta definizione per esempio.
Ho guardato il "film più brutto del 2009" per diversi motivi, il più valido è che davvero tutti si sono accaniti contro Mr Von Trier manco fossimo alla prima stipula del Dogma negli anni '90, in modalità -oddio la gente nuda che scopa e soffre che ansia che ansia-
Ecco appunto, l'ansia, fosse il solo punctum del film non ne staremmo parlando, saremmo dal nostro psicologo di fiducia a regalargli la prossima vacanza alle Maldive.
Perchè l'ansia fa male, e fin qui siamo tutti daccordo, però è universalmente accettata quando finisce bene, quando si risolve oppure è il prologo di uno stupendo cammino di illuminazione, rieducazione e liberazione dal male; le immagini ansiogene ci mettono a disagio, quindi o sono la realtà, quella delle fotografie di guerra e sofferenza, davanti alle quali ci possiamo sentire offesi, attratti o disgustati ma che non possiamo rifiutare, per amor di cronaca o per voyeurismo, perchè la realtà sarà sempre li e non sta bene rimuoverla, e poi è Natale e facciamo tutti un bel versamento ad Emergency per sentirci lì vicino ma anche molto lontano, nella impenetrabile galassia del nostro conto in banca online.
Oppure c'è la fiction dell'ansia, ecco questa è decisamente meno accetta: perchè, dico io, se tutti i santi giorni dell'anno vengo sepolto da una quantità galattica di input negativi e agitanti, quando sono nel mio suv in coda sulla tangenziale o in ufficio col capo che mi trata comel'ultimo degli stronzi, perchè dovrei spendere sette euro o due ore del mio tempo per sorbirmi la tiritera psicopatica di qualche scemo che decide di mimare i propri inferni su uno schermo?
Perchè è realtà anche quella, per esempio.
Perchè sono inferni reali, forse più delle immagini che ci spaventano nelle rassegne stampa delle sette e trenta o al tg5 servito con l'insalata di tofu in pausa pranzo, perchè sono personali e nel fondo del nostro cuoricione sappiamo che prima o poi toccherà anche a noi, oppure è già capitato.
Per carità, ognuno procede come vuole nell'impraticabile strada dell'elaborazione dei suoi mostri, questo è uno: sbatterseli in faccia, andarci contro a cento all'ora fino a schiacciarli come cofani in una discarica, "la paura non fa male davvero, ma per saperlo bisogna guardarla" dice Von Trier, e secondo me ha proprio ragione.
Mi piace da pazzi questa infantilissima, barocca descrizione immaginifica dei suoi cavilli esistenziali, è inutile mentire quando si tratta di irrazionalità, ogni omissione a favore del gusto ci priva della sincerità necessaria a capire quanto davvero facciamo schifo. E non c'è niente di male a fare schifo, lo facciamo tutti, in modi diversi.
Il suo è uno schifo composto di terrore del femminino, di insicurezza che diventa follia incontrollata, ospitato in una natura da giardino del'eden cupo, triste e grondante colpa dopo la faccenda del serpente, peccato originale da chiesa del primo novecento in cui la nostra cultura sguazza da secoli e pare nonstancarsi; il vantaggio di Von Trier è quello di vederlo e viverlo al cubo: al cubo della colpa e della punizione, della redenzione che stavolta non c'è ma che per anni ha permeato le storie delle sue madonne-puttane ingestibili.
Preferisco mille volte un pazzo che teme e insieme venera la femminilità tanto da doverla annientare per sentirsi al sicuro che la subdola ammirazione maschilista dell'involucro di carne, soprattutto se viene raccontata con queste immagini da favola Grimm, scure e colorate, potenti e lente, le favole che bene non sono finite mai, finchè qualcuno non ha deciso di epurare le macchie di sangue delle principesse per non far paura ai bambini.
Qui le principesse sono demoni che scopano e irretiscono, rendono folli vestite del loro incomprensibile corredo di trine spaiate, firmano patti con madre natura che tutto può a discapito del ridicolo essere logico maschile, e alla fine vengono punite, e poi si vendicano.
Un immaginario crudele si, ma nei confronti di chi l'ha pensato, così bello e vivido, reale perchè no, andatelo a chiedere ai Grimm un lieto fine, e sentite che cosa vi rispondono: le favole non finiscono mai, bene.
domenica 6 dicembre 2009
Carolyn Drake
Sto prendendo parte ad un esperimento scientifico che si basa sulla totale assenza di attività fisica e mentale, per non comprometterne i risultati non mi dilungherò nella descrizione delle qualità reportagistiche della signorina Carolyn Drake, daltronde non ne ho bisogno, per una volta posso evitare di pontificare a vanvera: lei si spiega benissimo da sola.
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