mercoledì 30 giugno 2010
La qualità della vita- Time is a game only children play well
Conosco Paolo da molto tempo, per anni ho saltellato nel suo locale nutrendomi di quei meravigliosi martini cocktails, su quella pista e a quel bancone i miei capelli sono stati lunghi e corti, i miei vestiti da cinque euro o belli e sudatissimi, la mia faccia è cambiata cento volte come quella dei miei compari, tutti dentro e fuori dal Thermos per dieci anni a cambiare pelle per lasciarla sul marciapiede lì fuori, secca, pronta ad esere calpestata.
Paolo ha scritto un libro, quando a Natale me l'ha detto ero contenta per lui e curiosissima, se qualcuno che conosci scrive un libro speri sempre che parli di cose che sai anche tu; le pagine sono andate via nella metropolitana del mattino, mentre in piedi aspettavo le mie tre fermate, un paio di volte sono dovuta scivolare tra le porte mentre si chiudevano perchè ero troppo impegnata a riconoscere Milano, o Ancona, o una città qualsiasi in cui proiettare il mio immaginifico iconografico..ma niente, ogni volta trovavo riferimenti mischiati ad altri: le vie si confondevano e convinta di essere nella triste ma potente aura milanese -quasi ferma, quasi squallida ma così necessaria per dipendenza- mi trovavo a casa mia, col finto profumo del mare del porto, i baretti accesi la sera e un altro tipo di malinconia, quella anconetano adriatica, quel vento fortissimo tra le case grigie degli archi, i palazzoni terrorizzanti del piano, la finezza fredda dei quertieri sul mare, i posti nascosti nelle vie in salita e quel gusto di sale, il medioevo fallito del centro storico, i tetti che si guardano da casa mia e che sembrano appuntiti e pazzi davanti al gomito del porto, questo ankon che ci rende tutti spigolosi ed esposti, col maestrale che soffia dritto sulle nostre facce e fa traspirare unicità, la presunzione di essere speciali col monte e il mare, nella schizofrenia di bellezza e nebbia.
Non è diversa la storia che racconta Paolo, secondo me, è la speranza di poter continuare a comunicare, protesi fuori, sapendo che qualcosa ti tiene per il bavero indietro, qualcosa di pesante e leggero insieme, quello che sei e quello che sei diventato, le persone che ami e che perdi, quelle a cui dai un nome che non riesci a scordare "nell'aureola tremante e velenosa" di questo posto fatto a cerchi, dove sembra che tutti si debbano incontrare di nuovo, dove le cose cambiano senza che cambi nulla, e tornare dopo tanto tempo sembra solo dover riassorbire piano piano tutto quello che la città ci ha detto, un riassunto breve e intenso di tutta la tua vita.
"pensare che alla fine ti diedi un nome, mi fa girar la testa"
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