venerdì 25 settembre 2009
the sartorialist- not fair (anche no)
Ho sempre pensato che Scott Schuman fosse un discreto genio, alla fine chiunque avrebbe potuto aprire un foto blog di "gente cool vestita a puntino in giro per le capitali internazionali", ma lui l'ha fatto prima e meglio, e alla fine come in una delle migliori puntate di Ugly Betty viene assunto da regina Condè Nast per replicare i suoi scatti su qualche copertina molto importante: un bel bacio al ranocchio che diventa principe delle fashion victims di tutto il mondo;
Poi arriva questo, ah e questo, ( i primi post di agosto 09) e poi la domanda: ma perchè?
Chapter 1: dress up in you
una cosa per volta: "I don't usually shoot homeless people. I don't find it romantic or appealing like a lot of street photographers, and if you asked homeless people they are probably not to happy about their situation either. That's why I was surprised to be so drawn to taking a picture of this gentleman."
ah-ah, e fin qui fila, anche se già sento delle microparticelle di senso di superiorità venire a galla fra una riga e l'altra.
"Usually people in this man's position have given up hope. Maybe this gentleman has too, I don't know, but he hasn't given up his sense of self or his sense of expressing something about himself to the world. In my quick shot I had noticed his pale blue boots, what I hadn't noticed at first were the matching blue socks, blue trimmed gloves, and blue framed glasses. This shot isn't about fashion - but about someone who, while down on his luck, hasn't lost his need to communicate and express himself through style."
no. amico no. così non va. non ti mettere nei panni di un homeless over 50 tentando di interpretare i suoi desideri e speranze attraverso l'analisi dell'abbinamento calzini-occhiali, è spregevole e offensivo, nell'ordine per lui, per te e per chi ti legge- tra l'altro abiti in un paese in cui una gigantesca percentuale della popolazione lavorativa è già o presto si ritroverà in queste condizioni, e non credo che il loro primo pensiero sarà il pendant sul tema blu di prussia, genialmente premeditato per sviare il pensiero che "oh noes, quell'uomo ha perso dignità e speranza nel suo essere, sarà colpa della sua sciatteria e del fatto che ha dovuto lasciare al banco dei pegni il rolex e la MG nuova"
"Looking at him dressed like this makes me feel that in some way he hasn't given in or given up."
aridaje: sarò eccessiva, ma dubito che lui si svegli ogni mattina pensando: "ehi ho perso tutto, però tengo ancora maniacalmente al mio abbigliamento che mi solleva dalla miserrima condizione in cui mi trovo. thanks god there's burberry." magari è li perchè lo vuole, oppure è solo disastrato chi lo sa, ma di solito sentirsi meglio grazie ad un pendant è una prerogativa di pochi, davvero, forse si sentono così le decine di stylist ora disoccupati che ti piaceva imboccare di finger food ai cocktail di vogue, ma la media mondiale no. smettila.
Chapter 2: how did the cat get so fat?
rieccoci qua, su channel "fat is politically correct": l'ha capito perfino Glamour che l'insofferenza delle donne della strada nei confronti della magrezza irriproducibile sulle sue pagine sta per scatenare una rivoluzione...oppure no?
mettiamola così, se mettete in copertina una giovane bellezza boccacesca alta un metro e ottanta che veste 46 in europa l'ottanta per cento delle donne si sentirà comunque inadeguata: quante sono le venticinquenni sovrappeso abbastanza belle da essere cover girl? come se non bastasse lo slogan -i'm hoping this will help people say "hey we should do it more!" mi fa davvero pensare ad un animatore nel villaggio vacanze di Sharm che ti urla nell'orecchio che DEVI partecipare al gioco aperitivo. Siamo dalla parte delle donne normali! photoshop è il male! siete tutte grasse consolatevi con la "donna normale" in copertina!"
peccato che le donne normali siano COMUNQUE lontane da questo, come avevo già tentato di spiegare.
"However, do you think that this economic crisis has forced the fashion community to open it's eyes a little bit to what the customers want?" cielo Mr Sartorialist, mi fai spaccare dalle risate.
davvero, forse non ce la faremo mai a capire che i manifesti, le pubblicità, le sfilate e tutto il simpatico circo che ci gira intorno sono una fascinazione senza senso, uno spunto, un'idea; che sfogliare i giornali pensando di trovare una risposta personale è stupido, che l'intelligenza sta nella mediazione tra i fattori, che in un modo o nell'altro questa gente ci vende qualcosa che non c'è, ed è lapalissiano, e non servono demonizzazioni e caccia alle streghe perchè comune girino la frittata qualcuno abboccherà, e lo farà senza aver tentato di imbastardire ciò che vuole con ciò che è: bruciate il vostro reggiseno se volete, domani victoria's secret ne disegnerà un altro.
martedì 22 settembre 2009
photoshop-ingannevole è il mouse più di ogni cosa
Ph. Patrick Demarchelier
La signora Valeriè Boyer, parlamentare francese, sta caldamente riportando sul tavolo delle discussioni una questione che, personalmente, speravo sepolta: la correzione digitale delle immagini nelle fotografie con soggetti femminili; ora, la Boyer è sicuramente abituata a vivere in un paese dove l'espressione "mercificazione del corpo femminile" ha ancora un senso compiuto, non vive in una metropoli dove una canalis alta 25 metri si fa uscire le tette dalla canottiera ad ogni angolo di strada, ma io continuo a credere che photoshop abbia davvero pochi legami con i disturbi alimentari e la dignità della donna nella comunicazione visiva.
Le immagini pubblicitarie, per definizione, creano una realtà parallela, una situazione stereotipata, fantastica ed esagerata che mira a colpire l'immaginario delle persone, che nello specifico non avrebbero voglia di comprare una bottiglia di cognac sponsorizzata da una donna in vestaglia di flanella, sovrappeso e in menopausa, e come biasmarli, non lo farei neanche io: Le pubblicità "buone", come la campagna della Dove con le cinquantenni e le paffutelle felici, sono patinate quanto le altre, magari nessuna limatura di rotolini, ma ore di trucco&parrucco precedute da lunghe riunioni del marketing che si sfrega le mani ridacchiando sommessamente per la trovata politically correct si, eccome.
Esistono due tipi di fotoritocco: quello della moda e della pubblicità, destinato a non estinguersi mai, credo, proprio perchè peculiare del messaggio che viene mandato è l'idea di perfezione, di armonia, di finzione come no, finzione a chili, rughette cancellate, mezzo centimetro in più timbroclonato, una taglia in meno gonfiata, pensate a Keira Knightley nel manifesto di Robin Hood, lei è l'eccezione che conferma la regola: una ragazza con probabili problemi alimentari e una taglia di jeans che i tre quarti delle donne portava sotto i 12 anni, vittima della "photoshoppata cattiva" imposta dal business crudele della moda, dalla disturbata taglia zero si ritrova ad assumere un profilo normale, addirittura qualche etto in più. Bizzarro.
Poi c'è il fotoritocco che usano i fotografi tutti i giorni, il novanta per cento dei professionisti ritocca le proprie immagini, anche solo impercettibilmente, per molti motivi, che vanno dal'uso ormai quasi esclusivo del digitale, alla imposta velocità di consegna, alla semplice voglia di fornire un prodotto che non abbia macchia, o all'esecuzione di un preciso progetto artistico. potrei andare avanti per ore; molti nascondono la testa sotto la sabbia e si difendono con argomenti raffazzonati e semplicistici, processi di negazione che non aiutano nessuno, come si può affermare che modificare un'immagine è "snaturarla"? come ci si può permettere, nel 2009, di dare la caccia al digitale come fossimo a Salem sparando a zero contro una "realtà costruita"? La realtà è sempre costruita, ogni immagine, ogni creazione visiva, tutto è pensato e premeditato, come lo è ogni forma espressiva che usi la realtà come metafora e specchio, per esagerarla o distorcerla, nel tentativo di creare una situazione significante che si allontani dalle percezioni quotidiane producendo un immaginario, a volte più denso e utile come quello dell'arte, altre meno nobile come nel caso dell'adv.
Dire che centinaia di migliaia di donne diventeranno anoressiche a causa dei cartelloni pubblicitari che riflettono un'ideale femminile impossibile da emulare è assurdo, vuol dire negare anni di studi scientifici, calpestare la dignità di queste persone trattandole come stupidi manichini privi di libero arbitrio, disconoscere la gravità di patologie che davvero poco hanno a che vedere con le pagine di Cosmopolitan e moltissimo invece con i modelli comportamentali inter familiari.
Dire che le fotografie ritoccate sono il male del mondo perchè inventano una donna che non c'è è davvero sciocco, le donne reali sono per strada, non sui manifesti, tantomeno su quelli "buonisti" di Dove, le stesse donne reali difficilmente troveranno a casa per cena l' Adrien brody che ammicca loro dal palazzo alll'angolo. Il processo creativo di un'immagine è qualcosa di più complicato di una parlamentare francese che si sente grassa o offesa guardando una pubblicità di Intimissimi, sono correzioni che vengono comunque applicate in modo minimo e su persone già fuori dal normale, cosa per la quale non vedano responsabilità se non quelle naturali, gli ideali sono sempre esistiti e da sempre, chiamandosi ideali, sono difficilmente riproducibili e soprattutto condivisibili: le immagini sono SEMPRE irreali, quello che si vede non è quello che si ha, è quello che si vorrebbe, ma certo non vuol dire che si avrà.
giovedì 17 settembre 2009
Gabriele Basilico- le città sono pezzi di città
L'incontro al Milano Film festival con Gabriele Basilico è per le 19 dell'altro ieri, sono quasi in ritardo e corro sotto la pioggia con l'ombrello rotto in mano, sperando di trovare ancora posto nella piccola sala dove proietteranno il documentario dedicato a lui da due giovani registi che ci parlano del suo lavoro attraverso le città nel corso degli anni, dagli esperimenti dei ritratti di fabbriche milanesi a beirut distrutta, e una mosca quasi incolore vista dall'alto.
Basilico gira per la città con il banco e il telo sulle spalle, quasi non pesasse nulla, neanche fosse un soprabito appoggiato per il troppo caldo, ogni tanto si ferma, fa un giro su se stesso e sussurra sorpreso "ma che bel posto" mentre l'inquadratura si allarga fino a mostrarci un palazzone abbandonato, un condominio pericolante o un silos arrugginito; conosciamo tutti le sue immagini statuarie, quelle composizioni mastodontiche e precise che però respirano, non sono statici esercizi tecnici da ex architetto, vivono di vita propria un pezzo per volta. Mentre lavora parla in continuazione, ma calmo e quasi lentamente, spiega che i posti e i luoghi, anche e soprattutto quelli senza più una vita, sono in realtà vivi di per sè, che ogni città li contiene e acquista senso grazie a loro, da ogni pezzo, come un banale puzzle, viene qualcosa di significante che forma l'insieme. Lo vediamo spiegare grandi mappe sul tavolo per progettare i lavori all'estero, i percorsi segnati col pennarello sulle vie di carta e uno stretto programma di esplorazione, precisa ma in qualche modo sempre sentimentale, perchè dopo aver programmato dove andare bisogna sapersi guardare attorno, con calma, attenzione e passione. Dice che Milano ha cominciato a girarla per commissione, e che da autoctono un pò disamorato della sua città questo lavoro è servito a fargli metabolizzare molte zone, a fotografarle per digerirle meglio, girando per questa "città senza orizzonte, sempre coperto dagli edifici", un pò antipatica nell'insieme, ma stupenda nei dettagli dei suoi "pezzi", come la Vigentina abbandonata, spettrale e nitidissima nella luce di un agosto deserto.
Basilico continua a parlare, anche fuori dal documentario, si presenta in perfetto orario sorridendo, placido come un nan indiano, risponde alla mia domanda cambiando discorso tre volte ma esaurendo anche curiosità che non avevo esternato, mi spiega come il suo lavoro su Milano non sia mai finito, che le scogliere della normandia lo facevano pensare a tarkovsky, alla sua campana e all'infinito mentre la città è diversa, l'infinito non c'è mai, ci sono le persone, che però a lui non interessano. le cose e i luoghi sono il nostro palcoscenico ma sono anche indipendenti, questi "pezzi" che formano un tutto hanno una loro speciale identità in ogni scatto, fatto e non pensato s'intende: perchè una foto finchè non è scattata non esiste.
venerdì 11 settembre 2009
hollywood party- we are a legion
La scarsa simpatia italica per la città di Milano è nota a tutti, così come i suoi stereotipi, ormai scolpiti a fuoco nella mente di chi la deride e di chi la abita, come fossero le tavole della legge, gabbie comportamentali che sfiorano l'assurdo perchè riescono a convivere con la propria leggenda; per dire che le storie della spocchia da aperitivo, dei deficienti col ciuffone e il lavoro trendy, di Zampetti nel bar sotto casa vestito come nella serie tv, ecco sono tutte vere, anche se ti ci prendono per il culo al bar, non c'è esagerazione.
Potremmo aver raggiunto l'acme di questa situazione nella giornata di ieri, dove la città tutta si è riunita in folle oceaniche per ben due volte nello stesso ciclo circadiano: prima la camera ardente per Mike Buongiorno allestita alla Triennale che ha visto migliaia di persone sfilare ordinate e commosse fra le transenne -la Triennale di Milano, un museo, un edificio enorme ed elegantissimo nel pieno centro della città e del parco sempione, gotha del circo del design da salone.. per ore ci siamo chiesti il perchè di questa location giungendo alla fine ad una sola risposta logica, la vicinanza alla sede rai e il risparmio sui rimborsi spese taxi ai giornalisti-, poi la Vogue Fashion Night out, una barocca operazione architettata dalla signora Sozzani per "educare la gente al lusso, pensate c'è chi nelle boutiques non entra, perchè è spaventato, e non bisogna essere spaventati dal lusso"; anche qui moltissima gente sparsa per la città, saltellando da un negozio all'altro per strappare una foto di fianco alle tette della tipa del grande fratello o tentare la toccata di gobba di Armani, il tutto osservando cupidamente i famosi beni di lusso dai quali non dovrebbero essere spaventati, e infatti non lo sono, solo che non possono permettersi nulla, come la maggioranza degli italiani che però ha la sfortuna di non poter avere 150 atelier aperti fino alla mezzanotte di giovedi, con tutta quella bella gente che fa le ospitate e ci fa sentire internazionali, che peccato.
la gente va, si aggrega, accorre, piange o ride davanti agli obiettivi, si muove e si mobilita nello stesso giorno per due volte, molte saranno state le stesse persone, non penso ci siano due città, coi nonni ambrogini tradizionali che vanno a salutare mike e i fighetti studenti fuorisede che si gettano in via montenapoleone per la notte bianca della fuffa: la città è una sola, abitata dalle stesse persone, che magari prima vanno a piangere sulla tomba di chi non conoscono se non attraverso il tubo catodico e poi fanno un salto in centro per vedere altra bella gente conosciuta solo virtualmente, magari sorridono vicino a loro, toccano con due dita una borsa che costa uno stipendio e tornano a casa contenti, stupiti.
Lo stupore funziona sempre e regala un senso di comunione alle folle, pare.
Ma dev'essere come la storia degli stereotipi: stupendoci sempre delle stesse cose le facciamo diventare vere, anche se vere non saranno mai, e basterà sempre un verme su un amo a trascinarci tutti fuori casa nell'impressione di aver partcipato a qualcosa che riguarda anche noi, senza poter mai pensare che magari avremmo preferito qualcos'altro.
giovedì 3 settembre 2009
OBAMA: america's got desks
Anche per Mr Obama il rientro dalle ferie dev'essere infarcito di blanda sofferenza come quello di tutti noi comuni mortali, un buon metodo per sconfiggere l'apatia settembrina potrebbe essere allestire un simpatico shooting fotografico nell studio ovale coinvolgendo la piccola Sasha, voi che ne dite?
Deve aver pensato la stessa cosa lo staff che si occupa dell'immagine del Presidente
-testa d'uovo, abbiamo una perdita di gradimento, inventiamoci qualcosa
-ehi jim hai ragione, perchè non usiamo lo scherzetto della scrivania?
ed ecco qua lo scatto-parodia della storica immagine promozionale di Kennedy, pochi mesi prima della sua morte, al lavoro fra mille scartoffie senza rinunciare alla rassicurante presenza del figlioletto John, il quale spero non sia incappato in qualche slip abbandonato dalla Monroe, per dirne una.
un giovane presidente, con sani eredi dagli incisivi d'acciaio, giusto e bello come Gesù: tutto quadra
se però nel 1963 si parlava di "Kennedy's Camelot"
ora possiamo forse sperare nell'Obama-ironia, oppure continuare a pensare che, qualsiasi cosa vi succeda sotto, agli americani le scrivanie facciano sempre un certo effetto.
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